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La castità forzata

Scritto da: Dasa
Pubblicato da: Elvira Nazzarri (ricordo ai cari lettori che i racconti sono espressioni di fantasia in prosa)
Era ormai un mese che la portavo senza interruzione. All’inizio aveva cominciato a imprigionare il mio pene per poche ore al giorno, per abituarmi a controllare il pensiero e l’erezione e sentirmi psicologicamente sottomesso al Suo volere. L’effetto fu immediato. Sentire il membro costretto, benché fonte di fastidio e dolore, mi dava una strana sensazione di rassegnata serenità, una sorta di pace interiore. Il mio corpo Le apparteneva e, così imprigionato, Le apparteneva anche la mia mente. Le erezioni mi causavano dolore e dovevo cercare di limitarLe, evitando pensieri lubrichi ma, giocoforza, a nulla valeva il mio sforzo quando, con sapienti messaggi e le foto che beffardamente allegava, la Padrona decideva di risvegliare i miei sensi. Passata l’eccitazione, rimaneva un senso di prostrazione psicologica oltre che fisica, avente come sbocco un solo pensiero: la profonda consapevolezza di appartenerLe. Ero Suo, poteva, con quel gioco, impedirmi senza alcuno sforzo di pensare ad altre e nello stesso tempo fare in modo che il pensiero di Lei fosse sempre imperiosamente eccitante e drammaticamente penoso. La fedeltà era, ad un tempo, imposta e volontaria. Anche volendo, in quelle condizioni non avrei mai potuto presentarmi di fronte ad altre donne, e anche il sol pensiero di tradirLa mi era impossibile per le pene che mi avrebbe inflitto. Tanto valeva minimizzare il dolore agli inevitabili, e immensamente più piacevoli, momenti in cui almeno la sofferenza sarebbe stata legata al pensiero della mia Padrona. Quel giorno mi convocò in studio per la tanto agognato incontro. Non avevo da anni il diritto di chiedere di incontrarLa, né avevo il diritto di rifiutarlo, se non per cause di forza maggiore. Cosa che non mi avrebbe comunque risparmiato punizioni di primo livello secondo quanto stabilito dal contratto che avevo volontariamente sottoscritto con Lei. Aver formalizzato, ponendo la mia firma in calce al contratto, la mia totale appartenenza alla Regina, mi aveva reso totalmente dipendente da Lei. A volte mi capitava di dover rivoluzionare i miei programmi, sempre necessari nella grande città, per rispondere a chiamate non sempre pianificate per tempo. Allo stesso modo, per quanto desiderassi vederLa, non era nelle mie facoltà di proporre alcunché. Solitamente, tuttavia, mi convocava con una certa assiduità ma quella volta, proprio per spingere all’estremo l’impatto della castità, aveva tardato, lasciandomi a lungo in una dolorosa attesa. Appena arrivai mi gettai ai Suoi piedi e mi impose di massaggiarLe le gambe mentre in ginocchio davanti a Lei adoravo i Suoi piedi trionfanti nelle décollétées borchiate. Incurante della stretta dolorosa, mi abbandonai senza pensieri al desiderio. Il supplizio non durò a lungo. Mi fece sollevare, mi guardò negli occhi e mi disse che ero stato bravo. Si aspettava che durante il mese Le chiedessi di liberarmi o mi lamentassi ma non lo avevo fatto. Intendeva perciò premiarmi per questo. Sentirsi premiato per uno schiavo è una sensazione difficile da descrivere. Da un lato è il compimento di tutto lo sforzo, la gioia più grande. Dall’altro lato è però il segno più tangibile della condizione umiliante di servo. Mi sentivo sconfitto dalla mia stessa gioia. Mi fece spogliare, infilò la piccola chiave nel lucchetto e mi liberò il pene. Con le unghia elegantemente affilate, mai troppo lunghe ma sempre minacciose, si mosse sensuale verso l’alto fino al petto. D’un tratto, dopo settimane di dolorosi accenni di erezione, una libertà dimenticata. Le lacrime scivolavano sul mio viso mentre ripetevo compulsivamente Grazie Padrona, prostrandomi devoto ai Suoi piedi. Guardavo i Suoi piedi con occhi diversi, non più solo l’amore e il desiderio imperiosi che mi suscitavano, come ogni centimetro del Suo corpo, come ogni sfumatura della Sua voce, ogni passo che compiva, ogni sguardo che incrociavo, era piuttosto una sensazione di reale devozione, amore per la Dea. 
 
Nella retorica femdom si usano spesso espressioni di questo tipo ma la percezione di un amore di tipo religioso nei confronti di un essere superiore a cui tutto è dovuto e da cui tutta la nostra vita dipende è una circostanza di non facile occorrenza. Molte volte, nell’eccitazione dell’incontro, nei messaggi che ogni tanto mi mandava per eccitarmi, negli incontri fuori dallo studio, avevo provato momenti di intensa devozione, avevo riconosciuto nel Suo sguardo la mia Dea ma mai mi era accaduto di sentirmi come di fronte al fuoco sacro, prigioniero nel tempio, desideroso di sacrificare la mia vita alla divinità. Entità superiore, depositaria del destino della mia umile esistenza, Mistress Elvira si ergeva dritta di fronte a me, vestita nella Sua mise preferita, giarrettiere, calze velate e corsetto attillato con seni e spalle scoperti. Restai chino ai Suoi piedi, continuando a baciarli senza sosta, ripetendo sono il Tuo schiavo come una litania. Mai avrei immaginato, nel mio laicismo convinto, di mostrarmi così pio. Passai il resto della serata ad ascoltare le Sue istruzioni e la Sua visione del nostro rapporto. Aveva chiaro in mente che avremmo dovuto disegnare insieme dei rituali religiosi, di cui la costrizione del pene era una forma particolare ma non esclusiva, per regolamentare in qualche modo la religiosità del nostro rapporto. Mi resi conto che avevo bisogno di una liturgia, di precetti e di riti. Non si doveva costruire sul nulla. Ovviamente tanti anni di asservimento avevano in qualche modo stabilito delle regole cui mi attenevo scrupolosamente, delle consuetudini e dei piccoli riti ma si doveva ordinarli. Mi sarei sentito perduto, argomentava Mistress Elvira, senza un rituale da seguire, senza delle modalità liturgiche di consacrazione del mio tempo a Lei anche in Sua assenza. Dopo un lungo, intenso servizio ai Suoi piedi e alle Sue gambe con le mie mani e le mie unghia, mi fece inginocchiare di fronte a Lei, le braccia legate e tese verso l’alto, mi prese i capezzoli e cominciò a stringerli e tirarli fino a farmi urlare dal dolore mentre il piede, ancora inguainato dentro le calze di un nero trasparente, accarezzava il mio pene sovreccitato. Eiaculai rapidamente e copiosamente con un flusso ripetuto e potente, chinando la testa e godendo delle ultime gradevoli e dolorose strette sul mio petto. Mi lasciò appeso lì per diversi minuti, prima di tornare, bella come non mai. La Sua mano meravigliosamente affusolata e attraente si avvicinò al mio viso e lo accarezzò con fare vescovile, mi imponeva la Sua autorità, dicendomi che sarei stato il Suo servo più devoto e che la devozione mi avrebbe guadagnato il favore della Dea, l’unica cosa per la quale aveva un senso la mia altrimenti vana esistenza. Prima di andare mi gettai ai Suoi piedi e La implorai di rimettermi la cintura. Sorrise, armeggiò con la gabbietta, ci infilò dentro il mio membro pago e richiuse. Non aver paura, stavolta mi rivedrai presto. Fui di nuovo ai Suoi piedi, nuovamente eccitato e li baciai come se fossi in astinenza da mesi e non pochi minuti. Per la prima volta da quando ero diventato il Suo schiavo frignai, implorandoLa di non mandarmi via, di tenermi lì prigioniero per sempre. Devi essere forte, disse, sii devoto, pregami ogni sera come faresti per la tua unica Dea e troverai la serenità per sopportare la mia assenza. Dopo tutto ciò che conta non è stare con me ma appartenermi e sapere che non ti abbandonerò se sarai devoto e ubbidiente. Ora vai! Baciai un’ultima volta il Suo piede, mi alzai, mi ricomposi e mi lasciai la porta alle spalle. 
 
Il viaggio in bici verso casa, una mezzora in un’area sgradevolmente trafficata, fu una lunga trance. Gli automatismi ormai solidi nel muoversi nel traffico, mi fecero sembrare il viaggio una specie di trasposizione. Mi ritrovai sotto casa senza nemmeno accorgermene. Per tutto il tempo la mente tornava alle parole della Padrona e alla necessità di istituire una liturgia che mi consentisse di sentirmi ai Suoi piedi nei lunghi giorni fra un incontro e un altro. Nei giorni successivi mi attivai. Feci stampare una foto che adoravo: i piedi in splendidi sandali con le fettucce sottili tempestate di strass e il lungo e affilato tacco dorato. Lo smalto di un rosso scuro, i piedi erano incrociati così che il sinistro mostrasse la perfezione irresistibile dell’incavo, il nero della fettuccia posteriore, l’unica senza strass incastonati e l’alluce presuntuoso e severo in primo piano. La incorniciai e la misi nel salone. Era il mio altare, la mia guida, vedevo la foto tutti i giorni e la vedevano tutti gli ospiti che non mancavano di osservarla, ammirarla e informarsi su chi fosse. AI più aperti rispondevo la mia Padrona, ad altri un’amica che poi era come dire la stessa cosa. Non ho mai nascosto la mia passione per i piedi o per le dominatrici ma si trattava di qualcosa di diverso. Un conto è parlare liberamente di fantasie erotiche, un altro è mostrare in maniera così palese che si appartiene a qualcuno. Fosse poi stata la mia compagna, lì presente, sarebbe stata semplicemente una bella foto. Così no, era chiaramente, inequivocabilmente un atto votivo a una creatura superiore di cui mi era concessa solo la rappresentazione grafica da adorare in lontananza. 
 
La devozione è molto più profonda della schiavitù. Dove questa è una condizione di costrizione, legata al fascino di una donna che sa usare il proprio fascino per sottomettere, in qualche modo una forza esterna cui si soggiace, quella è un impeto interno, per sua natura inarrestabile e totale. Cominciò così un periodo in cui l’abbandono al Suo potere divenne totale, incessante. La Sua presenza era un peso sulle mie spalle, come se dovessi sempre portare con me uno zaino, dolce quanto si vuole, ma abbastanza pesante da tenere il capo chino tutto il tempo. Anche l’umore ne risentiva. Non ero triste ma sempre pensieroso, anche in compagnia tendevo a distrarmi facilmente e tornare col pensiero alla mia Regina. Presi l’abitudine di scrivere regolarmente per Lei, cosa che apprezzava e non aveva più bisogno di sollecitare. Ogni volta che La vedevo Le portavo un piccolo pensiero, cosa che non costituiva nessun impegno perché pensavo sempre a cosa potessi fare per compiacerLa. Non ero riuscito a immaginare una liturgia come pensavo di fare e come sentivo fosse necessario. Probabilmente doveva essere una Sua emanazione ma mi affidai a piccole pratiche che mi ricordassero di appartenerLe e che, in qualche modo, erano una forma di preghiera. Non restavo mai fermo, in piedi o seduto, volgendo le spalle al ritratto dei Suoi piedi, avevo sempre una delle Sue foto come sfondo del cellulare e, quando andavo a letto, mi addormentavo guardando una Sua immagine sul computer. Volevo addormentarmi sempre col pensiero della mia Dea. Al risveglio, come da contratto, un messaggio di buongiorno era la prima cosa che facevo. Questi piccoli riti mi fecero dimenticare completamente l’esistenza di altro nella mia vita che non fosse l’asservimento alla mia Regina e mi aiutarono a sopportare il fastidio e l’umiliazione di quella gabbia intorno al mio pene, della fine di ogni velleità di maschio, della consacrazione della mia virilità interamente alla mia Regina. La rinuncia alla mia sessualità non fu facile ma fu inevitabile. Vivevo nella speranza che mi convocasse ai Suoi piedi e mi concedesse di masturbarmi in Sua presenza oppure, le volte che decideva di lasciarmi libero, di farlo anche da solo a casa, secondo un copione rigorosamente scelto da Lei. In questa nuova dimensione, compresi finalmente che nulla aveva senso al di fuori di Lei e che solo nella consacrazione della mia intera esistenza al Suo piacere avrei trovato pace e felicità. Quando mi arrivò la convocazione via mail, risposi con un sì Padrona e pensai che finalmente, dopo la lunga attesa di una settimana, potevo di nuovo essere me stesso fino in fondo, lo schiavo devoto e ubbidiente di Mistress Elvira. Con questo pensiero in mente citofonai, ascoltai eccitato il clac del portone e salii le scale. Aprii e immediatamente chiusi alle mie spalle la porta del tempio e la guardai a figura intera, nel Suo abbagliante erotico splendore, prima di buttarmi ai piedi della mia domina: la potente e sensuale Dea Mistress Elvira, padrona della mia vita, del mio corpo e della mia mente.