Racconti dei miei faithful

Mistress Milano (epilogo)

Scritto da schiavo amos
Pubblicato da Elvira Nazzarri

 

Quella parola, schiavo, pronunciato da una donna mi ha sempre eccitato. Crea distanza ed è in grado di farti sentire poco più di un oggetto. A volte le parole hanno un enorme potere emotivo.

Ma detto da lei, che ne conosce il profondo significato, la distanza contemporaneamente si amplifica e si annulla. Nel nostro territorio di incontro, dove tutto ciò che per il mondo è in apparenza assurdo, per noi è il senso naturale delle cose.

Le sue mani mi serrano i testicoli in una morsa senza via di fuga, mi da le spalle mentre mi trascina senza complimenti attraverso l’appartamento. L’unico rumore il suono deciso dei suoi tacchi. Entriamo in una grande stanza in penombra piena di attrezzi di ogni genere. Poi mi ordina di prendere una valigetta di legno posizionata in un angolo, di metterla per terra di fronte a me e di aprirla. Dentro è piena di biglie di legno. Mi fa inginocchiare sulle biglie, poi prende un bicchiere, mi dice di distendere le braccia in avanti e me lo mette in mano. Lo riempe fino all’orlo, poi prende una sedia, si posiziona di fronte a me e guarda l’orologio che ha al polso. «Da questo momento hai dieci minuti e se vuoi un consiglio non ne verserei neanche una goccia. Te ne pentiresti molto, ma molto amaramente».  Tra me penso che non sarà una cosa impossibile ma dopo i primi minuti le ginocchia incominciano a fare male e le spalle iniziano a dare i primi segni di cedimento. Lei si gode la scena divertita. «Sembra una cosa da nulla invece è faticoso, vero schiavo?».

Sto iniziando a sudare per lo sforzo, vorrei spostare le ginocchia per alleviare il dolore che ogni minuto diventa sempre più insopportabile ma anche il minimo movimento farebbe uscire l’acqua dal bicchiere. Le braccia sono al limite della sopportazione e iniziano a tremare. Alla fine accade l’inevitabile e alcune gocce cadono sul pavimento. Lei mi guarda comprensiva e mi dice: «Mi dispiace ma ora comprenderai cosa significa disobbedire a un mio ordine». Mi strappa il bicchiere dalle mani e mi sbatte il contenuto in faccia. «Dopo asciugherai!» Poi mi prende per i capelli e mi trascina davanti a un grosso palo di ferro. «In piedi!» E mi lega i polsi a delle corde posizionate in cima. Sento il freddo del metallo sul corpo nudo. Mi lascia li legato ed esce dalla stanza. Mi guardo intorno, il locale è pieno di specchi e una delle pareti è occupata da una serie di piccole celle di detenzione. Ci sono corde che pendono dal soffitto, un grosso tavolo di legno in stile liberty, sedie di diversa fattura, tendaggi su finestre e pareti. Poi c’è una specie di sgabello alto, di quelli che si regolano a vite, al quale però, al posto della seduta, è posizionata la sezione di una bottiglia di plastica messa come a celare qualcosa. Mi vedo riflesso in uno specchio che mi restituisce con crudo realismo l’entità della mia condizione. Nudo, inerme e consapevole di appartenere ad una donna che ora può disporre di me senza limiti. Ho paura ma sono anche tremendamente eccitato.

Dopo alcuni minuti sento il rumore dei suoi passi che si avvicinano, poi appare dalla porta con passo deciso e tre fruste in mano. La prima è una specie di cinghia, la seconda un battipanni, la terza un nerbo di bue. Me le mostra e con una certa crudeltà mi illustra le caratteristiche dei tre strumenti. Mi dice che il nerbo di bue è tremendo. «Con quale vuoi iniziare?» Mi dice sorridendo. Come se poi avessi scelta…

Scelgo la cinghia. Incomincia a frustarmi e ogni volta che mi colpisce fa un rumore secco e violento. Dopo i primi colpi il dolore mi fa compiere movimenti istintivi come a cercare di proteggermi ma sono legato e riesco solo ad abbassarmi di qualche centimetro o spostarmi alla destra e alla sinistra del palo. Ma non serve a nulla, anzi, peggiora la situazione perché vengono colpite anche zone ancora intatte ed è ancora più doloroso. Dopo una cinquantina di colpi sono al limite della sopportazione e inizio a implorarla, «Ti prego Elvira basta! Non ce la faccio più». «Primo, quando basterà lo decido io. Secondo, tu mi dai del Lei, e non provare più a chiamarmi Elvira. Da oggi in poi ti devi rivolgere a me chiamandomi Padrona. Ti è chiaro schiavo?».

Ora cambia strumento e inizia a colpirmi con il battipanni. Il rumore è diverso e anche il dolore inizialmente sembra più sopportabile, ma non mi da tregua tra un colpo e l’altro e così, in breve tempo, anche questa pena diventa difficile da sopportare. Infine passa al nerbo di bue e qui il castigo diventa veramente severo. I colpi sono intervallati con lentezza, appena vengo colpito il dolore aspetta qualche secondo per manifestarsi, poi lo sento crescere in maniera esponenziale e mi arriva fino in gola. Ma come inizia a placarsi arriva inesorabile il colpo successivo. Finalmente, quando sto per cedere, si ferma e mi dice: «Credo possa bastare, spero ti sia servito di lezione». Mi slega e mi accascio ai suoi piedi distrutto. Bene, mi dice: «Questo e il tuo posto, leccami gli stivali schiavo e chiedimi perdono per il tuo comportamento gravissimo!». Poi mi trascina davanti a uno specchio e mi mostra come mi ha conciato. Il sedere è viola, ed è cosparso di segni orizzontali sovrapposti e gonfi. L’immagine in contrasto di noi due riflessi, lei, stupenda e irraggiungibile e io, sconfitto e degradato, mi fa eccitare in maniera violenta. Lei se ne accorge e sorride beffarda e soddisfatta.

«Ora asciughi il disastro che hai combinato prima». Mi lega le mani dietro alla schiena, poi prende uno straccio e me lo infila in bocca.

In quel momento suona il citofono e lei: «Ah è arrivata. Rimani li in ginocchio e aspetta. Anche se dopotutto non penso te ne possa andare chissà dove conciato così, hahaha». Sento la porta che si apre e in lontananza due voci femminili. Poi passi che si avvicinano e lei che dice: «Vieni ti presento il mio nuovo schiavo». No, penso, no può farmi anche questo, è troppo. Mostrarmi in queste condizioni a una sconosciuta. Ma è proprio quello che vuole. E lo fa.

Le vedo sulla porta che mi guardano e mi sento sprofondare dalla vergogna. Ridono. Poi lei mi ordina: «Forza, comincia ad asciugare il pavimento!». Io mi butto con la faccia a terra e inizio a strisciare goffamente visto che ho le mani immobilizzate dietro alla schiena. Lentamente arrivo fino ai loro piedi, ho ancora il plug che mi ha inserito prima in bella mostra e non avrei potuto sentirmi più degradato. O almeno così pensavo…

Poi la mia Padrona dice alla sua amica. «Se hai voglia prendilo pure a calci». Lei non si fa pregare mi viene dietro e mi sferra un calcio sulle natiche che mi sbatte disteso per terra. Ridono. Poi mi dice: «Rialzati schiavo!» A fatica mi rimetto in ginocchio e ricomincio ad asciugare ma poco dopo mi arriva un altro calcio che mi manda nuovamente a terra. Si diverte la stronza, poi mi si piazza di fianco e mi schiaccia la faccia a terra sotto il suo piede.

«Ok», dice la mia Padrona alla sua amica, ora siediti li che ti mostro qualcosa di molto divertente.

«In piedi schiavo!». Mi slega le mani da dietro la schiena e me le lega in alto ad una corda che pende dal soffitto. Mi mette una ball-gag. Poi mi sfila il plug che avevo da prima e si avvicina allo strano sgabello che aveva attirato la mia attenzione. Toglie la bottiglia che celava un enorme fallo stilizzato di legno. Come lo vedo la mia espressione deve gratificarla molto. «Ti sembra grande?» Io annuisco preoccupato, non posso credere che mi voglia impalare con quell’arnese enorme. «Beh non sembra, lo è. Ma ce lo facciamo entrare, te lo assicuro».

Mi lega i piedi alla base di legno così non ho scampo. Poi mette un preservativo sul fallo e lo cosparge di lubrificante, infine fa ruotare la vite in legno dell’ex sgabello e mi spinge indietro facendo in modo che il peso del mio corpo sia distribuito in tre punti; le mie gambe e l’impalatore appoggiato sul mio ano.

Lentamente ma inesorabilmente le gambe cedono e diventa molto difficile non aumentare la pressione sull’impalatore. Mi sento sempre più aperto, dilatato ma capisco che è inutile lottare, aumenta solo il dolore. Così quando mi arrendo e i muscoli si rilassano lo sento penetrare completamente. Ora è dentro.

Le mie aguzzine sono sedute di fronte a me e si godono lo spettacolo. Mi sento privato di ogni dignità, umiliato. Cerco di oppormi ma ormai il palo non trova più resistenza e vengo penetrato sempre più in profondità. L’amica si alza e viene a guardare dietro quanto è entrato e mi dice: «Scommetto che ti piace». Poi prende la borsetta che aveva in mano e me l’appende sul pene eretto. «Ecco a cosa serve questo».

Torna a sedersi e incominciano a chiacchierare tra loro come se non ci fossi mentre io sono li di fronte a loro a soffrire. Escono dalla stanza e dopo un po’ tornano con un drink in mano e mentre lo sorseggiano continuano i loro discorsi lanciandomi fugaci occhiate ma cariche di significato. Sempre più penetrato dal palo di legno inizio a implorare pietà ma la ball-gag che ho in bocca mi fa emettere un gemito scomposto. Lei mi guarda e mi reguardisce: «Non sai che è estremamente maleducato interrompere due persone che stanno parlando? Stai zitto!» Ma non ce la faccio più, le gambe mi tremano, il culo mi sembra esplodere e inizio a singhiozzare e a urlare: «La prego pietà Padrona».  Allora mi toglie la ball-gag e mi chiede: «Sei disposto a fare tutto ciò che ti chiederò se ti libero?» «Si, Padrona farò qualsiasi cosa! Qualsiasi». «Bene, lo hai voluto tu, poi non provare a lamentarti». Mi libera i piedi e poi mi aiuta a sollevarmi e a sfilarmi dal palo del supplizio. Poi mi scioglie anche le corde intorno ai polsi e cado a terra sfinito dalla terribile prova. Mi lascia li sul pavimento ed esce dalla stanza.

Dopo qualche minuto la sento tornare. Ha un grosso bicchiere in mano colmo di un liquido paglierino. Non c’è bisogno di essere un genio per capire di cosa si tratta. Lo poggia per terra, poi si toglie una scarpa ci immerge il piede e seccamente mi intima: «Vieni qui e lecca!» Striscio fino ai suoi piedi e memore del supplizio appena subito lecco senza esitazione. Ma è solo l’inizio dell’ordalia perchè subito dopo mi dice: «Ora te la bevi tutta! E non provare ad esitare, se no ritorni sull’impalatore per mezza giornata»  Afferro il bicchiere. E’ caldo. Lo guardo e vedo loro che mi osservano in silenzio. Mi faccio forza e sento il liquido che mi sfiora le labbra. L’odore è pungente. Poi il primo sorso e mi viene quasi da piangere. Il senso di degradazione è assoluto. Cerco di non fermarmi tra un sorso e l’altro e di non pensare. Però devo fare due pause per prendere fiato, il che rende ancora più penoso riprendere a bere. Lo finisco. Ora l’annullamento è completo e sento di appartenerle in modo totale. Allora mi dice «Vieni qui ora». Mi sposto in ginocchio di fronte a lei e alla sua amica. «Ora segati! E guardami negli occhi quando vieni». L’orgasmo è violentissimo e infinito. Per un attimo eterno mi sento proiettato in un’altra dimensione senza tempo. Forse un fugace assaggio del Nirvana. Poi ritorno nella stanza ma tutto è cambiato, la tensione si è dissolta e dentro me c’è un profondo senso di pace. Le sorrido e lei mi sorride.

Esco dalla doccia e la ritrovo sola, seduta sulla sua scrivania. Accanto a lei una scatoletta. «Un regalino». Mi dice. Lo apro e dentro c’è un oggetto in acciaio. Ci guardiamo negli occhi senza dire nulla. «Su dai, indossala». Poi prende il lucchetto e lo fa passare dentro i due fori. Click…

«Beh, ora si può proprio dire una cosa». «Che cosa?» Le chiedo. «Beh, sei mio!”. Ma avrebbe potuto dire altre due parole molto più abusate.

Ora ho la risposta. Due parole possono farti trovare la strada per la felicità.